Alzheimer. Diagnosi anche con la PET

 L’osservazione di un alterato funzionamento della trasmissione degli impulsi tramite tomografia a emissione di positroni, o il rilevamento nel cervello di placche beta-amilodi con la stessa tecnica, potrebbe essere il futuro della diagnosi della patologia. A dirlo due studi, di cui uno italiano. 

 
13 LUG - Per come viene usato oggi l’esame PET forse la notizia potrà cogliere di sorpresa, ma secondo gli ultimi studi – dopo il suo uso in oncologia e in cardiologia – la tomografia a emissione di positroni potrebbe essere utile anche per la lotta alla malattia di Alzheimer. Due studi, tra cui uno italiano del San Raffaele, dimostrano oggi come la tecnica diagnostica sia in grado di valutare già in fase preclinica i primi lievi sintomi della patologia.
 
La PET è una metodica medico-nucleare molto complessa che produce immagini diagnostiche basandosi su un principio peculiare: raccoglie le radiazioni emesse da sostanze debolmente radioattive (traccianti somministrati al paziente per via endovenosa, senza danni collaterali) e le utilizza per generare una serie di immagini tomografiche del corpo umano. Gli isotopi positroni-emittenti sono utilizzati per marcare determinate molecole e produrre così i traccianti necessari allo studio PET. Generalmente viene usata in oncologia per la diagnosi, lo studio e il monitoraggio di tumori, e in cardiologia per ricercare anomalie all’attività del miocardio sia sotto stress che a riposo.
 
Ma oggi l’uso della tecnica si apre anche alla lotta alla demenza. Ne parla in particolare uno studio italiano condotto dai ricercatori del San Raffaele e pubblicato sul Journal of Alzheimer. Il lavoro rientra nell’ambito di uno studio multicentrico europeo e dimostra come l’alterazione dell’attività colinergica (ovvero del sistema molecolare composto dalle sinapsi e dai neurotrasmettitori in grado di modulare l’invio degli impulsi elettrici tra neuroni), avvenga non solo nella forma conclamata di malattia di Alzheimer, ma anche nelle fasi precoci, quando il deficit cognitivo è minimo. Queste valutazioni funzionali sono state possibili grazie all’utilizzo della PET e di un particolare tracciante, 11 C MP4, in grado di misurare l’attività della colinesterasi, un enzima fondamentale nell’attività colinergica. In questa ricerca 11 C MP4 si è rivelato un “neurotermometro” molto sensibile e specifico delle fasi precliniche di demenza.
L’alterato funzionamento della trasmissione degli impulsi su base biochimica precede quindi l’insorgenza della malattia di Alzheimer, e spiega in parte anche i deficit di memoria nei soggetti esaminati. Lo studio longitudinale clinico ha rivelato che in un intervallo di 12-18 mesi, il 95% dei casi, con questo biomarker positivo, è evoluto a demenza di Alzheimer: è evidente dallo studio che, in soggetti con un disturbo cognitivo lieve, la riduzione dell’attività del sistema colinergico è già presente e significativa quanto nelle fasi di demenza conclamata .
L’utilizzo del biomarker (tracciante, 11 C MP4 ) e della PET sono indicatori molto sensibili di progressione di malattia e le misure in vivo di altri biomarkers molecolari potrebbero rivestire un interesse fondamentale anche nella scelta e nel monitoraggio terapeutico dei pazienti con decadimento cognitivo su base neurodegenerativa.
 
Un’idea, quella dell’uso della PET per rilevare i segni precoci dell’Alzheimer, che è stata ripresa e ampliata da uno studio del Duke University Medical Center, pubblicato su Neurology. I ricercatori statunitensi hanno scansionato con questa tecnica e un nuovo pigmento radiattivo (florbetapir) il cervello di 151 persone alla ricerca dei primi segni della demenza, nel tentativo di predirne la prognosi. Il pigmento usato è stato ideato proprio allo scopo identificare la densità delle placche beta-amiloidi che caratterizzano la malattia.
All’analisi, durata sei mesi, hanno preso parte 69 persone che all’inizio dello studio mostravano funzioni cognitive normali, 51 cui era stata diagnosticata demenza lieve e altri 31 con la patologia di Alzheimer. Gli esami sullo stato cognitivo dei partecipanti sono poi stati effettuati nuovamente dopo 18 e 36 mesi, ma per ora sono disponibili solo i dati del primo dei due follow-up: i pazienti che presentavano demenza lieve e che all’esame PET mostravano placche, dimostravano dopo un anno e mezzo un peggioramento, che i soggetti le cui placche non erano state rilevate non mostravano. In particolare, il 29% delle persone che presentavano placche in questo gruppo avevano sviluppato Alzheimer, contro il 10% di chi non le mostrava, così come i pazienti che all’inizio del trial sembravano in salute ma per i quali la PET aveva rilevato placche mostravano un declino cognitivo più importante rispetto agli altri.
Anche se per ora il pigmento non è approvato per la predizione dello sviluppo della malattia, e dunque non può essere usato per questo, i ricercatori precisano che i dati a 36 mesi potrebbero rivelarsi proprio un passo in avanti verso un biomarker che possa definire l’aggressività della patologia, con l’uso della tomografia a emissione di positroni.
 

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